È con il pianto che il bambino comincia a manifestare la propria volontà, poi scatta il rifiuto del cibo, quindi inizia la raffica dei no. Cosa sapere e come comportarci.
Il primo “no” del bambino è rappresentato dal pianto che “scatta” ogni qualvolta il piccolo si trova in una situazione di disagio o di malessere. Il pianto è la sua prima e unica forma di comunicazione e se ne serve per comunicare agli adulti i suoi bisogni. Essi non sono sempre legati al cibo: quando un bimbo piange spesso comunica solo il proprio bisogno di essere confortato e coccolato, inutile insistere dunque con il seno o il biberon se il pianto non si calma. Con lo svezzamento poi il “no” viene espresso anche attraverso il rifiuto di aprire la bocca o di girare ripetutamente la testa. I primi “no” verbali del bambino fanno la loro comparsa verso i 12 mesi di vita, parallelamente alla pronuncia delle sue prime parole. Ma vediamo insieme l’evoluzione del dissenso.
A 12 mesi
È intorno ai 12 – 14 mesi che il bambino inizia a camminare ed è sempre in questo periodo che comincia a pronunciare le prime parole: una grande conquista per lui che, in questo modo, si distacca anche fisicamente dalla mamma. Tuttavia, il graduale distacco fisico non coincide con una vera autonomia psicologica: il piccolo si identifica ancora molto con la figura materna. Il “no” del bambino rappresenta un’imitazione di quello che egli sente dire da lei e dagli adulti in generale. A questa età perciò il “no” del bambino non va preso come vero dissenso, bensì come la semplice ripetizione di una parola che egli ha sentito dire spesso e della quale comincia ad appropriarsi senza conoscerne davvero il significato.
A 18 mesi
Il bambino è ora in grado di camminare autonomamente: ha inizio la fase vera e propria del distacco, del riconoscimento di se stesso come “altro” rispetto alla madre e quindi come individuo perfettamente autonomo. Il “no” diventa il suo modo personale per affermare il suo io come essere diverso da quello del suo mondo circostante.
A 24/36 mesi
Il bambino è totalmente fuori dalla simbiosi materna e il “no” è il suo personale modo per esprimere e far comprendere agli altri che egli è un’entità totalmente distinta. I suoi desideri e la loro realizzazione diventano lo strumento a sua disposizione per ribadire il concetto di autonomia. Tutto ciò che gli viene chiesto di fare da parte degli adulti, diventa motivo di sfida quasi a voler confermare ulteriormente “voglio fare ciò che io voglio e non ciò che vuoi tu”. Questa fase è definita anche con il termine “oppositiva” e fortunatamente dura non più di 6/8 mesi. Il “no” rappresenta per il bambino la traduzione della convinzione: desidero essere me stesso e voglio gestire la mia volontà.
A 4 anni
Il piccolo a questa età ha un linguaggio più sviluppato e si sente più grande. I suoi “no” sono sempre più decisi e supportati spesso da una spiegazione. In questa fase il bambino controbatte all’adulto, quindi può arrivare a fare delle vere e proprie discussioni. Mamma e papà, pur ascoltando le ragioni del bambino, devono rimanere fermi nel ribadire le ragioni delle regole condivise.
A 5 / 6 anni
Se il comportamento oppositivo del bambino è ancora evidente, si può iniziare a spiegare perché questo atteggiamento è sbagliato e quali possono essere le conseguenze di un errore, seppur banale. Bisogna evitare le sanzioni senza giustificazioni. L’ideale è dunque stipulare un “contratto” basato sulle buone regole da osservare che preveda solo dei premi.
Dai 6 anni
A partire da questa età è giusto ascoltare i “no” del bambino, cercando insieme di capirne i motivi e di trovare le possibili soluzioni. Si possono stabilire insieme delle regole da seguire (relative al comportamento in casa o alla scuola, per esempio) con le relative possibili punizioni: così facendo, il bambino può anche dire “no”, ma sa anche a quali conseguenze va incontro.
Più delle parole conta l’esempio
In casa è giusto fissare delle regole che il bambino deve rispettare ma attenzione: esse si apprendono soprattutto attraverso il comportamento dei genitori. I bambini infatti apprendono per imitazione, quindi le norme devono far parte del modo di vivere di tutta la famiglia. Quando il bambino trasgredisce i comportamenti richiesti dai genitori, è importante far notare al piccolo che sta mettendo in atto un comportamento non accettato dalla famiglia. Non solo, ma ogni qualvolta il piccolo mette in atto un comportamento del genere l’errore non deve essere ignorato, ma riconosciuto e affrontato. Solo in questo modo, attraverso una costante attenzione ai suoi comportamenti, il bambino capirà di essere comunque al centro dell’attenzione di mamma e papà ed il rimproverò non sarà un episodio di conflitto ma l’atto di un’azione educativa che è nello stesso tempo espressione di cura e di affetto.
Anna Pelegrini
Ha collaborato:
Dott.ssa Rosalba Trabalzini
Psichiatra – Psicoterapeuta- laureata in psicologia clinica