In questi giorni sta facendo discutere un tweet postato dall’ex Ministro per lo sviluppo economico, Carlo Calenda. Il tema sono i giochi elettronici, il politico sostiene con convinzione che, in casa sua, i giochi elettronici non entreranno mai. In effetti, il ministro deve essere convinto di quello che dice, perché è padre di tre bambini di età compresa tra i 5 e i 12 anni, quindi proprio nella fascia di età a rischio per ludopatia i giochi elettronici. Siamo sicuri che questa posizione così estrema sia davvero la soluzione?
Il tweet di Carlo Calenda in effetti può essere condivisibile, negli ultimi anni i giochi elettronici sono stati, giustamente, accusati di procurare tanti problemi ai giovanissimi. Partendo dai casi più estremi, ci sono stati episodi di ragazzini che hanno sviluppato una forma di dipendenza nei confronti del gioco elettronico, al punto di collegarsi anche durante le ore notturne, di giocare per ore e ore consecutive perdendo la nozione del tempo. Casi in cui i genitori, ormai impotenti, si sono sentiti costretti a contattare le forze dell’ordine per indurre i figli a smettere. Si tratta di episodi eccezionali, per fortuna. Molto più diffusa è l’abitudine di giocare un po’ troppo a lungo, restando quindi in posizione seduta, magari con il collo reclinato: una realtà che favorisce mal di schiena anche nei giovanissimi, non aiuta l’armonioso sviluppo del fisico e soprattutto contribuisce al sovrappeso, perché per un’ora di gioco sedentario i ragazzini perdono un’ora di sport o un’ora di corse al parco con gli amici. È altrettanto sbagliato che il gioco elettronico sostituisca altre forme di intrattenimento mentale, in primo luogo la lettura, ma anche l’ascolto della musica.
Carlo Calenda punta proprio su questo per il suo rifiuto ai giochi elettronici: la rapidità delle immagini che si rincorrono sul piccolo schermo abitua la mente dei ragazzi a una velocità tale di immagini e di pensieri che il resto, a partire dai libri, sembra troppo lento e banale. Inoltre il rischio dei giochi elettronici è la “reazione, non l’azione”: in pratica non esiste più creatività, pensiero libero, decisione di agire perché il tutto è riportato alla reazione rispetto a quello che viene imposto dal gioco. D’altra parte, diversi studi hanno riportato che i giochi elettronici allenano la mente al ragionamento rapido e a collegamenti logici un tempo impensabili. Devono pensarla così gli utenti che hanno risposto pacatamente, esponendo le proprie ragioni: e chi ha risposto non è un ragazzino appassionato di giochi, ma esperti che spiegano come alla base del rifiuto ci sia essenzialmente una non-conoscenza della materia. Oggi i giochi elettronici sono realtà virtuali interattive che parlano anche di storia, arte, scienza. Ancora, sono oggetto di corsi universitari rivolti a studenti che ne faranno una precisione in ambito scientifico.
Insomma, anche in questo campo, come in tutte le cose, la reazione assoluta non può mai essere condivisa. Sarebbe come rifiutare il computer, la televisione, strumenti di lavoro e di intrattenimento che hanno portato avanti il progresso. Vietare in modo assoluto, come è noto, porta come unico risultato la trasgressione: un bambino che non ha mai potuto avere un gioco elettronico è destinato ad una pericolosa abbuffata la prima volta che è ospitato da un amico a casa del quale sono ammessi. Non solo: il divieto rischia di tagliare fuori da quella che è ormai una realtà di tutti. E si rischia anche di privare di strumenti di crescita e di apprendimento. Insomma, come sempre noi optiamo per il giusto mezzo. Qualche mezz’ora di gioco al giorno, scelto con attenzione al PEGI e alla qualità del gioco stesso, non può essere così nocivo. Soprattutto se un bambino è coinvolto in attività sportive, letture, gite culturali. In questo i genitori devono offrire il buon esempio.
Giorgia Andretti