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Il potere non è donna

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Ancora poche le donne ai vertici della politica e delle imprese: famiglia e carriera sono inconciliabili?

Politica e dirigenza restano in Italia, a dispetto della grammatica, due sostantivi maschili con percentuali e statistiche che inseriscono il nostro Paese fra le ultime posizioni nella classifiche internazionali relative alla presenza femminile nelle istituzioni. E’ il quadro che emerge dai dati e dalle ricerche presentate dalla Fondazione Bellisario in occasione del seminario internazionale “Donna, Economia e Potere”, che si è tenuto a Roma alla fine del mese scorso.

Le donne in politica
L’Italia occupa la settantaduesima posizione della classifica relative alla presenza femminile nelle istituzioni, immediatamente preceduta da Panama (9,9%), Burkina Faso (9,9%), Zimbabwe (10%), Kyrgyzstan (10%). Dei 630 parlamentari italiani, infatti, solo 62 sono donne, vale a dire il 9.84%.
E solo due sono le donne al governo: Letizia Moratti, ministero dell’Istruzione e Stefania Prestigiacomo, ministro per le Pari opportunità). Non va meglio a livello di amministrazioni locali: è donna un sindaco su venti, un assessore su sei e diciotto consiglieri su cento
Segnali più positivi, almeno sul fronte della consapevolezza civica, arrivano dalla ricerca effettuata per conto della Fondazione Bellisario dalla società Astra-Demoskopea: 15 anni fa, soltanto il 50% degli italiani riteneva che ci fossero poche donne in politica; oggi la percentuale è salita all’80%.
Fa pure ben sperare il dato secondo il quale la scarsa presenza delle donne in politica sia legata al rifiuto femminile della politica di oggi: in quanto corrotta e disonesta (34%), distratta rispetto ai problemi della gente (30%), confusa e incomprensibile (28%), ridotta a mera lotta di potere priva di ideali (26%), troppo aggressiva e brutale (25%). Non dunque un generico rigetto della politica bensì del modo con cui si fa politica, in maniera volgare, virulenta, rozza. Le donne che prima denunciavano soltanto di essere discriminate, oggi vanno oltre e denunciano la “cattiva politica”. Significativo poi quel 6% residuo di persone che pensano ancora che le donne siano meno capaci e meno competenti.
A fronte di questa scarsa presenza femminile in politica si ricomincia a parlare dell’introduzione le quote (riservando alle donne una percentuale garantita per legge degli eletti al Parlamento, nei consigli regionali, provinciali, comunali) ritenute da 6 italiani su 10 “utili e giuste”, ma considerate dalle donne come un segnale significativo del perdurante clima di discriminazione per le donne in politica. Un ultimo dato interessante della ricerca riguarda come gli italiani vedono il rapporto fra cariche pubbliche e gentil sesso: la maggioranza di intervistati dichiara che quel che conta non è il sesso ma la capacità della singola persona. Però qualche differenza di genere resta. Come Presidente di regione o sindaco del proprio comune, cariche elettive ‘vicine’, gli italiani preferirebbero una donna ( 16,1% contro 9,2% per il primo incarico, 19,2% contro 7,7% per il secondo) e una guida “in
Rosa” vedrebbero pure al ministero del Tesoro e delle Finanze. Meno adatte sembrano invece le rappresentanti del gentil sesso a guidare ministeri aggressivamente maschili come quelli della Difesa (33,1% preferiscono un uomo, 6,8% una donna) e degli Interni (dove il rapporto e’ 17,6 contro 10,2). Quanto infine, al Capo dello Stato, vederlo in tailleur non sarà facile: quelli che lo vogliono uomo sono in netta prevalenza.

Le donne nelle imprese
Sul fronte lavorativo i dati non sono più incoraggianti. Le donne manager/dirigenti sono merce rara nelle aziende del Belpaese: appena il 5% del totale dei dirigenti, contro il 20% del Belgio e il 45% in Polonia. E anche quando, in ritardo rispetto agli uomini, raggiungono posizioni di vertice, guadagnano meno. ”Una donna nel suo percorso professionale – commenta Lella Golfo, presidente della Fondazione Marisa Bellisario, ricordando che in Italia solo il 37% delle donne lavora – incontra quel famoso tetto di cristallo che le impedisce di arrivare ai livelli più alti della sua carriera”. Eppure nonostante i numeri siano negativi, le donne continuano a studiare, hanno una forte volontà di emergere e di farsi valere.
Sono ancora molti in Italia a pensare, e non solo fra gli uomini, che quando si sale di livello in azienda, è difficile conciliare i tempi di vita “femminili” con quelli di lavoro. Una donna in maternità ad esempio, perderebbe in tale periodo “contatto” col suo lavoro a tal punto da trovare al suo rientro, un’azienda molto diversa da come l’ha lasciata e dovendo impiegare tempo e risorse aggiuntive per colmare il gap creatosi.
Ma non tutto è nero nel mondo del lavoro femminile. Ci sono aziende che cominciano a pensare “in rosa”. Alcuni casi incoraggianti mostrano come sia possibile percorrere delle strade diverse che possono aiutare le proprie dipendenti proprio nel periodo della maternità. Un esempio su tutti è quello di Monica Possa, direttore delle risorse umane di Vodafone Omnitel, che è da poco rientrata da un periodo di maternità durato nove mesi. L’azienda per la quale lavora, racconta ha molto rispetto per le sue sei mila dipendenti donne, il 58% del totale, che possono contare per nove mesi sul 100% dello stipendio. L’azienda si fa infatti carico di quel 70% di stipendio in più che non viene garantito dalla legislazione attuale. Le dipendenti mamme di Omnitel, inoltre, possono
contare su un fondo di solidarietà messo a disposizione dall’azienda, cui possono attingere per necessità sanitarie nel periodo di maternità, e hanno a disposizione asili nido nelle principali sedi di lavoro, grazie a convenzioni sottoscritte da Omnitel con le strutture presenti nelle diverse regioni, il tutto per favorire un rientro più rapido e soddisfacente per entrambe le parti.

In Rete:
Fondazione Bellisario

 

Enrico Massi

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