Solo in Italia sono circa 50.000. Sono le persone soggette a disforia di genere: nati maschi si percepiscono come femmine, o viceversa. Una situazione psicologicamente complessa, che in passato non di rado ha esposto a grandi sofferenze. Infatti i disforici erano costretti a nascondersi, a fingere di essere qualcosa in cui non si identificavano, reprimendo le reali aspirazioni sentimentali, professionali e gli inevitabili risvolti nel sociale. Quando coraggiosamente decidevano di esporsi, erano spesso vittime di bullismo, sfottò e discriminazioni tali da sentirsi dei veri emarginati con inevitabile sofferenza depressiva fino a sconfinare nell’atto estremo: il suicidio.
La sofferenza: la porta della disforia
Oggi, però, la situazione sta cambiando, seppur lentamente soprattutto nel nostro paese. I disforici non si nascondono più e assecondano anche con l’abbigliamento e l’atteggiamento le loro reali ispirazioni, la loro identità più profonda. I tribunali, anche in Italia qualche volta, danno loro ragione, permettendo di usare in determinati contesti il nome scelto, maschile o femminile. Restano però le difficoltà a livello burocratico: fino a quando l’identità legale non si potrà confermare anche all’anagrafe, i disforici saranno sempre in bilico tra quello che si sentono di essere e la persona fisica – maschio o femmina – come di fatto vengono ancora considerati.
Se l’identità è legata alle caratteristiche
Altro problema serio, è quello delle caratteristiche sessuali. Infatti, le persone con disforia sessuale, o trans gender, spesso desiderano avere anche fisicamente i tratti sessuali a cui ambiscono appartenere: trans gender nati uomini vorrebbero il seno ed eliminare la barba, mentre le donne che si sentono uomini vorrebbero avere tutti gli attributi maschili al loro posto. E questa è un’esigenza comprensibile per la percezione della propria identità più profonda, anche se un tribunale – incredibilmente italiano – di recente ha dichiarato che il sentirsi maschio o femmina non è necessariamente legato agli attributi fisici. Un’affermazione che potrebbe essere accettata dai cosiddetti – genderfluid- coloro che si sentono sia uomini sia donne e mantengono la sessualità conferita da madre natura. Molti trans gender, però, non la pensano così e vorrebbero univocità tra l’immagine percepita di se stessi e quella reale esteriore: solo così possono sentirsi veramente completi e vivere con serenità.
Una clinica dove fermano l’adolescenza
Pensando proprio alla difficoltà quotidiana vissuta dalle persone con disforia, ad Amsterdam è stato messo a punto il cosiddetto – protocollo olandese. Si tratta di un percorso specializzato per inibire temporaneamente lo sviluppo fisico dell’adolescente la cui identità sessuale è ancora confusa. La disforia, infatti, quasi sempre inizia a manifestarsi già all’epoca della scuola primaria e ancora di più è evidente alle medie: non sono poche le bambine che si vestono e si comportando come un maschio o i ragazzini che dichiarano di voler indossare le gonne e che odiano robot e macchinine. Se la mente è così, il corpo va per conto suo e a 13-14 anni alla ragazzina cui cresce il seno ed arrivano le mestruazioni, le si riversa un carico emozionale troppo pesante da gestire, facendola sconfinare in uno stato confusionale. In questi casi, sostengono i medici olandesi, è meglio lasciare i ragazzi in una situazione di stallo, per circa tre o quattro anni, solitamente dai dodici ai sedici anni circa. Si somministrano loro farmaci con l’obiettivo di inibire l’azione ormonale così da lasciare il corpo con tratti somatici infantili ancora per un po’: niente barba, niente seno e niente menarca. Questo periodo di stallo ormonale deve essere impiegato, attraverso una psicoterapia mirata, per capire a quale genere il ragazzo o la ragazza si sente di appartenere. Se poi, a compimento dei sedici anni, termine ultimo per intervenire farmacologicamente, l’appartenenza all’altro sesso è dominante, si compie la scelta insieme allo staff medico e verranno somministrati gli androgeni alle ragazze e gli estrogeni ai maschi così da stimolare lo sviluppo verso un genere o l’altro e comunque verso l’immagine propria di riferimento. Effetti collaterali derivanti da questa temporanea soppressione ormonale sono minimi: al limite si rischia una carenza di calcio prontamente ristabilita con integratori. Il protocollo olandese, era prevedibile, fa discutere: imitato in altre parti del mondo, in Italia è vietato. Un unico centro ospedaliero si era offerto di ospitare un progetto simile, il Careggi di Firenze ma si è visto negare la possibilità di proseguire.
Dott.ssa Rosalba Trabalzini
Responsabile scientifico di Guidagenitori.it, Associato SIMA
Consulenza del dottor Salvatore Chiavetta
Pediatra di Famiglia a Palermo, tesoriere della SIMA – Società Italiana di Medicina dell’Adolescenza