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Mamme a bordo campo

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Piccoli campioni a tirar calci ad un pallone, madri tifose ad agitarsi sugli spalti: breve cronaca di sport

Che sia nato campione è evidente. La prima parola è stata ‘paja’, la seconda ‘goo’. La prima frase di senso compiuto ‘pasa paja io fa goo’. Al babbo luccicavano gli occhi. Va allo stadio dai due anni, ma ormai è un ometto. E’ ora di cederlo a una società.
La cessione di un seienne a una polisportiva di calcio è un momento solenne nella vita di ogni genitore italiano. Un tempo il privilegio era riservato ai soli padri, ma con l’emancipazione anche le mamme possono accedere al rito iniziatico.
Dopo mesi di ricerche viene identificata la società più seria (quella dove ha tirato i primi calci la gloria locale) e si procede all’iscrizione, curiosa cerimonia in cui, in cambio di un assegno, il futuro campione riceve una sacca, pantaloncini e maglietta. Nonché all’incontro con l’allenatore.

Gli allenatori dei ‘pulcini’ sono persone assolutamente spregevoli. Cresciuti spesso alla scuola della strada, giocando da bambini a calcio in assoluta libertà, hanno dello sport -praticato da adulti a livello professionistico- la bislacca idea che sia un modo per sviluppare in armonia mente e fisico, nonché per socializzare con gli altri. Mentre tutti sappiamo che il calcio serve a diventare miliardari!
Dopo la prima settimana di allenamenti, in cui il seienne viene fatto ruzzolare nell’erba assieme a tutti gli altri- senza che nessuno gli spieghi l’importanza del centrocampo o le tecniche di ‘marcatura a uomo’- e condannato ad allacciarsi da solo le scarpe, l’inadeguatezza dell’allenatore si palesa in tutta la sua plateale virulenza nella partita del sabato.

Gli spalti trasudano mamme e papà, che si vedono mandare in panchina, dopo i 20 minuti regolamentari, il campione proprio nel bel mezzo di un cross di sinistro in area. O di mamme che si prendono a borsettate perché l’altro bambino ha commesso un atroce fallo ai danni del proprio. Urla d’incoraggiamento, insulti, parolacce, come o se non peggio che allo stadio per un derby di serie A.
Dalla panchina l’allenatore prova, più e meglio del Trap, a dirigere i suoi virgulti, cercando di sovrastare le urla di 22 Ct sugli spalti. Ma la sua mente è assente: va al passato, quando, alla stessa età dei suoi ragazzini, godeva di quotidiane partite della durata di sei ore, giocate con palloni che, a osare un colpo di testa, aprivano lo scalpo, finite 85 a 92 solo per l’urlo materno, l’unico, che lo voleva a casa a cena. Allora lui odiava la mamma. Forse è per questo che non sopporta quelle di oggi?

 

Lilith

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