In questi stessi giorni del 2014 mio papà era ricoverato in hospice in attesa della fine. La metastasi aveva avuto la meglio dopo anni di cure e ci era stato consigliato di spostarlo per avere l’assistenza esperta degli ultimi momenti. Gli hospice per malati terminali sembrano asettici hotel, posti di passaggio, dove la provvisorieta’ dell’esistenza è talmente palpabile che una strana calma ti invade. È una metafora in piccolo delle nostre vite provvisorie. Io ho già deciso che Gabriele è grande abbastanza per capire la morte e lo porto spesso con me. Si aggira con decisione alla ricerca del nonno, ormai in sedia a rotelle, nelle sale comuni o in giardino. Il nonno, già sordo, è sedato e nasce un dibattito surreale tra lui e il nipote il cui contenuto, in fondo, non ha importanza. Gabri è forte, sicuro, fa ridere il nonno forse per l’ultima volta.
La visita successiva non sarà già più in grado di riconoscerci. La visita successiva Gabri mi guarda con intenzione: mamma, hai capito vero? O ti rifiuti di farlo come la nonna… No Gabriele. Io prego perché sia prima piuttosto che poi. Perché questa non è più vita. L’hospice condivide la struttura con un ricovero per lungodegenze, tanti i giovani immobilizzati e in sedia a rotelle con respirazione assistita.
Lasciandoci la porta alle spalle, torniamo nell’ altro mondo provvisorio di tutti giorni, che gira solo a un passo un po’ meno accelerato di questo. E nessuno di noi due sarà più lo stesso.